Un operatore ecologico addetto alla raccolta differenziata, che, a seguito dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute e di diversi interventi chirurgici al cuore, aveva richiesto una riduzione del carico di lavoro. Nonostante ciò, il datore di lavoro non solo non aveva modificato le sue mansioni, ma le aveva aggravate, assegnandogli ulteriori zone di raccolta e estendendo l’orario di lavoro.

Il lavoratore ha quindi agito in giudizio, lamentando una discriminazione ai sensi del d.lgs. 216/2003 per la mancata adozione di accomodamenti ragionevoli.

La sentenza del Tribunale di Bari è importante in quanto afferma “… che lo stato di salute del ricorrente integra la nozione eurounitaria di disabilità di cui alla direttiva 2000/78/CE e rientra nell’alveo del D. Lgs. n. 216/2003 attuativo, diretto a garantire la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro; ed invero, la situazione di “disabilità” è pacificamente attestata dall’Istituto previdenziale, con nota dell’1/4/2024 nonché con verbale datato 3/2/2025, rilasciato dal medesimo Istituto.

Prosegue la sentenza affermando … non vi è chi non veda che la patologia cardiaca che affligge il ricorrente “pregressa ablazione chirurgica per flutter- fibrillazione atriale, pregressa ablazione percutanea di via nodale lenta per tachicardia parossistica sopraventricolare, cardiopatia valvolare mitralica sottoposta a plastica valvolare” – che integra una menomazione fisica duratura – ostacola la piena ed effettiva partecipazione del lavoratore alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori non affetti da simili limitazioni nello svolgimento delle mansioni di operatore ecologico addetto alla raccolta porta a porta.

In tale contesto, l’art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216/2003, attuativo della direttiva 2000/78/CE, stabilisce che ” al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3/3/2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena uguaglianza con gli altri lavoratori”.

Per stessa definizione normativa è, pertanto, discriminatoria la condotta del datore di lavoro che non adotti i “ragionevoli accomodamenti”, volti a garantire al lavoratore disabile parità di trattamento rispetto agli altri lavoratori.

Tribunale di Bari sentenza del 15.9.2025

Con questa recente sentenza, la Cassazione, nel solco di una consolidata giurisprudenza,  ha rilevato che lo straining, che può configurarsi anche tramite un atto isolato, rappresenta una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni ma sempre riconducibile all’art. 2087 c.c., sicché garantisce il risarcimento del danno al lavoratore leso anche in assenza dei tratti caratterizzanti il mobbing.   Anche recentemente, la Corte ha ribadito che una situazione di stress può rappresentare fonte di risarcimento del danno subito dal lavoratore, ove emerga la colpa del datore di lavoro nella contribuzione causale alla creazione di un ambiente logorante e determinativo di ansia, come tale causativo di pregiudizio per la salute.

E’ stato, inoltre, sottolineato (Cass. n. 29101/2023 cit.) che -in relazione alla  tutela  della personalità morale del lavoratore, al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining – quello che conta è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 cod. civ. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento, ovvero la sua integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica; la reiterazione, l’intensità del dolo, o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento ma nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale come quelli in discorso può restare senza la minima reazione e protezione rappresentata dal risarcimento del danno, a prescindere dal dolo o dalla colpa datoriale, come è proprio della responsabilità contrattuale in cui è invece il datore che deve dimostrare di aver ottemperato alle prescrizioni di sicurezza.

Pertanto, la particolare suscettibilità o sensibilità del lavoratore non esclude né il mobbing né lo straining se il datore consente un ambiente stressogeno e mette in atto comportamenti che, anche se non illegittimi, inducono disagio. Il diritto al risarcimento scatta a prescindere dalla volontà di emarginazione se il clima è mortificante o comunque non ideale per svolgere serenamente i compiti assegnati.

Risarcimento danno – Mobbing sentenza della Cassazione dell’1.12.2025

La sentenza allegata, emessa dal Tribunale di Napoli il 15.5.2025, è relativa al giudizio promosso dai congiunti di un operaio dell’Italsider di bagnoli, deceduto per mesotelioma pleurico , contratto per l’inalazione di fibre di amianto nell’ambiente lavorativo. La sentenza è importante perché affronta la questione del cd. danno parentale. Il c.d. danno “da perdita del […]

Tribunale lavoro Pesaro sentenza n. 370 del 31 luglio 2025

Fatto

Un vigile del fuoco deceduto per adenocarcinoma polmonare aveva partecipato a campagne di soccorso in zone sismiche, a missioni NATO in aree di stoccaggio di ordigni bellici e ad attività operative con esposizione a sostanze pericolose. Gli eredi richiedevano il riconoscimento dello status di vittima del dovere e dei relativi benefici economici. L’amministrazione resistente contestava la sussistenza dei presupposti normativi. La CTU accertava il nesso causale tra le condizioni operative e la patologia oncologica, richiamando la classificazione IARC 2022 che qualifica come cancerogena l’esposizione professionale dei vigili del fuoco.

Massima

In materia di riconoscimento dello status di vittima del dovere, i benefici di cui alla L. 266/2005 configurano un diritto soggettivo e non un mero interesse legittimo, atteso che, sussistendo i requisiti previsti, si costituisce una posizione giuridica soggettiva nei confronti di una pubblica amministrazione priva di discrezionalità sia in ordine alla decisione di erogare le provvidenze che alla misura di esse. L’art. 1, comma 563, della L. 266/2005 richiede che l’invalidità permanente o il decesso siano conseguenza diretta di eventi verificatisi nelle specifiche ipotesi tassativamente elencate dalle lettere da a) ad f), mentre il successivo comma 564 estende lo status a coloro che abbiano contratto infermità permanentemente invalidanti o alle quali consegua il decesso in occasione o a seguito di missioni, riconosciute dipendenti da causa di servizio per le particolari condizioni ambientali od operative. Il termine “missione” di cui al comma 564 deve intendersi come attività istituzionale di servizio, propria del corpo di appartenenza, che ricomprende sia compiti operativi che addestrativi, anche fuori dai confini nazionali, richiesti o autorizzati da soggetti gerarchicamente sovraordinati, traducendosi in un dovere collegato al servizio. Le attività di soccorso svolte durante campagne a seguito di eventi sismici e quelle effettuate in zone di operazioni belliche o in aree di stoccaggio di munizionamento ad uranio impoverito integrano le “particolari condizioni ambientali od operative” richieste dal comma 564, implicando un evidente aumento del rischio ordinario riconnesso all’attività. In tema di nesso causale tra esposizione professionale e patologie oncologiche nei vigili del fuoco, assume rilievo la classificazione operata dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) che nel luglio 2022 ha dichiarato l’esposizione professionale dei vigili del fuoco come “cancerogena per l’uomo”, sicché, in assenza di altra causa nota, deve riconoscersi il nesso di causalità tra le sostanze cancerogene alle quali il vigile del fuoco è rimasto esposto e la neoplasia polmonare.

Esito

Il Tribunale accoglie il ricorso, riconoscendo lo status di vittima del dovere ai sensi dell’art. 1, comma 564, L. 266/2005 e condannando l’amministrazione alla corresponsione delle provvidenze economiche e non economiche spettanti agli eredi, oltre alle spese di giudizio e di CTU

 

Il decreto legge n. 4 del 27 gennaio 2022 (Misure urgenti in materia di sostegno alle imprese e agli operatori economici, di lavoro, salute e servizi territoriali, connesse all’emergenza da COVID-19, nonché per il contenimento degli effetti degli aumenti dei prezzi nel settore elettrico), pubblicato nella G.U. Serie Generale n. 21 del 27-01-2022, all’art. 20, comma 1, ha così stabilito: “All’articolo 1 della legge 25 febbraio 1992, n. 210, dopo il comma 1, è inserito il seguente: «1-bis. L’indennizzo di cui al comma 1 spetta, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge, anche a coloro che abbiano riportato lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, a causa della vaccinazione anti Sars-CoV2 raccomandata dall’autorità sanitaria italiana.

Il termine entro il quale deve essere presentata la domanda di indennizzo è disciplinato dall’articolo 3, comma 1, primo periodo della legge 210/1992, a norma del quale I soggetti interessati ad ottenere l’indennizzo di cui all’articolo 1, comma 1, presentano alla USL competente le relative domande, indirizzate al Ministro della sanità, entro il termine perentorio di tre anni nel caso di vaccinazioni … . I termini decorrono dal momento in cui, … l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno.

Affinché tale termine decorra è innanzi tutto necessario che il danneggiato sia consapevole della correlazione tra il pregiudizio subito e la vaccinazione.

Il Dipartimento Militare di medicinale legale di La Spezia, territorialmente competente, su richiesta della Asl ha acquisito la documentazione e, dopo aver sottoposto il cittadino ad un accertamento sanitario, ha  sancito il nesso causale tra la vaccinazione e l’insorgenza delle patologie denunciate, scrivendo nel verbale che “Il manifestarsi della piastrinopenia immunomediata (Itp) cronica che ha colpito il signor XXXX  a distanza di pochi giorni dalla prima procedura vaccinale con vaccino Astrazeneca per Covid-19 costituisce certamente una reazione avversa grave (risposta nociva e non intenzionale a una vaccinazione per la quale è possibile stabilire una relazione causale o concausale con la vaccinazione stessa) potenzialmente innescata dalla procedura stessa, in soggetto fino ad allora sano.

La Asl  di Genova e la Commissione Medica Ospedaliera di La Spezia hanno così dato il via libera al risarcimento spettante al cittadino per danno da vaccinazione, considerata la “menomazione permanente dell’integrità psicofisica”, con un indennizzo vitalizio sottoforma di assegno bimestrale di importo pari, secondo le ultime tabelle ministeriali, a 1740,77 euro.

Nel nostro ordinamento, sul principio di solidarietà si fonda la legge n. 210/1992 sull’indennizzo conseguente a vaccinazione obbligatoria o anche solo raccomandata, per quanto riguarda i vaccini anti Covid-19. E dunque, sussiste un presidio concreto. Il problema, semmai, è dimostrare, in sede amministrativa, che la patologia riscontrata sia una conseguenza della somministrazione del vaccino.

 

Per quanto riguarda le complicanze trombotiche, un avallo alla prova del nesso causale potrebbe essere fornito dalla stessa ammissione di Astra-Zeneca, sebbene riferita, dalla stessa casa farmaceutica, a casi sostanzialmente eccezionali.